domenica 26 dicembre 2010

Placebo senza inganno e sindrome del colon irritabile

Pubblicato su PLOS di dicembre
Il placebo funziona anche senza inganno.
Studio su pazienti affetti da sindrome del colon irritabile.

Il placebo è tipicamente utilizzato negli studi clinici come controllo per testare potenziali nuovi farmaci. In queste ricerche i pazienti vengono divisi in due gruppi (farmaco vs placebo) e i dati analizzati per valutare se l'effetto farmacologico sia superiore a quello del placebo. Spesso i dati rilevano una risposta terapeutica anche in chi assume pillole che non contengono principi attivi.  I dati sul placebo sono talmente convincenti che molti medici (uno studio stima il 50% negli stati uniti) somministrano segretamente placebo a pazienti ignari.
Poiché tale "inganno" è eticamente discutibile, Ted Kaptchuk e collaboratori, hanno valutato il potere del placebo in modo onesto e rispettoso. I ricercatori, appartenenti all’Osher Research Center Researchers dell’Harvard Medical School e al Beth Israel Deaconess Medical Center, hanno studiato 80 pazienti affetti da sindrome del colon irritabile, suddividendoli in due gruppi. Un gruppo che fungeva da controllo non ha ricevuto alcun farmaco, l'altro ha ricevuto consapevolmente  placebo. Kaptchuk nell'illustrare le modalità dello studio afferma “Non solo abbiamo chiarito in modo inequivocabile che le pillole erano compresse di zucchero senza principio attivo, ma abbiamo anche scritto ‘placebo’ sulle etichette”. I pazienti sono stati monitorati per 3 settimane. Al termine del periodo di osservazione quasi il doppio dei pazienti trattati con placebo ha mostrato un notevole miglioramento dei sintomi rispetto al gruppo di controllo (59% vs 35%). Inoltre, su altri parametri clinici, i tassi di miglioramento sono stati paragonabili a quelli ottenuti con i più potenti farmaci contro il colon irritabile.
Gli autori avvertono che questo studio apre semplicemente la porta alla nozione che il placebo è efficace anche in paziente pienamente informati. Pur essendo necessari studi più ampi, questi risultati suggeriscono che i trattamenti con placebo anche quando sono somministrati senza nascondersi e con una logica plausibile dei potenziali effetti, possono produrre una risposta benefica.

Placebos without Deception: A Randomized Controlled Trial in Irritable Bowel Syndrome
Kaptchuk TJ et al. PLoS ONE 5(12): e15591.

domenica 19 dicembre 2010

Mortalità e morbilità

Una maggiore aspettativa di vita non è accompagnata da più anni vissuti in salute

Lo rivela una nuova ricerca pubblicata sul numero di dicembre del Journal of Gerontology
Spendiamo più tempo da malati rispetto ad un decennio fa

Dal 1970 al 2005 la probabilità di un sessantacinquenne di sopravvivere fino all'età di 85 anni è raddoppiata, passando dal 20% del 1970 al 40% del 2005. Molti ricercatori presumono che le stesse ragioni che permettono alle persone di vivere più a lungo, comportamenti salutistici e progressi in campo medico possano allo stesso tempo ritardare l’insorgenza di malattie consentendo di spendere meno anni di vita con una malattia debilitante. Questa nuova ricerca condotta da Eileen Crimmins, Gerontologa presso la University of Southern California,  dimostra che il periodo medio di vita trascorso con malattie serie o debilitanti è aumentato negli ultimi dieci anni.
Secondo i dati della ricercatrice la possibilità di vita in salute di un ventenne di oggi si è ridotta di un anno rispetto ad  un coetaneo di un decennio fa, anche se l'aspettativa di vita è cresciuta.
"Abbiamo sempre dato per scontato che ogni nuova generazione fosse più sana e longeva di quella precedente" ha spiegato Crimmins, "tuttavia, la compressione della morbilità può essere illusoria quanto l'immortalità."
Un maschio di 20 anni nel 1998 poteva aspettarsi di vivere altri 45 anni senza almeno una delle principali cause di morte: malattie cardiovascolari, cancro e diabete. Il numero di anni è sceso a 43,8 anni nel 2006, con la perdita di più di un anno. Per le giovani donne giovani l’aspettativa di vita senza malattie gravi è scesa da 49,2 anni a 48 anni, negli ultimi dieci anni.
“Ci sono prove sostanziali che abbiamo fatto poco per eliminare o ritardare l’insorgenza delle malattie, mentre abbiamo ridotto la morte per malattie” ha spiegato Crimmins “ allo stesso tempo c’è stato un aumento significativo dell’incidenza di certe malattie croniche, specialmente il diabete”. Dal 1998 al 2006 è aumentata inoltre la prevalenza delle malattie cardiovascolari fra gli uomini, del cancro in entrambi i sessi e del diabete dai 30 anni in poi. Inoltre è aumentata la percentuale di popolazione affetta da più di una patologia.
“I problemi crescenti legati all’obesità, ipertensione e ipercolesterolemia sono le prove concrete che la salute umana non migliora attraverso le generazioni” ribadisce la Crimmins,  “non sembra che ci si stia muovendo verso un mondo dove arriviamo alla fine della vita senza provare un periodo significativo di malattia, perdita di funzionalità o disabilità”.


References:
Crimmins and Beltrán-Sánchez. "Mortality and Morbidity Trends: Is There Compression of Morbidity?" J Gerontol B Psychol Sci Soc Sci (2011) 66B (1): 75-86.

mercoledì 15 dicembre 2010

Immaginare di mangiare, un sostituto per l'esperienza reale?

Uno studio condotto da ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh e pubblicato sulla rivista Science mostra che immaginare di mangiare un determinato cibo riduce il consumo effettivo di quel cibo. Questa scoperta capovolge ipotesi vecchie di decenni per le quali il pensare a qualcosa di desiderabile era la miccia che ne faceva aumentare il consumo.
Secondo gli autori cercare di sopprimere il pensiero di qualcosa che si desidera, nella speranza di diminuirne la voglia, è una strategia fondamentalmente sbagliata. Al contrario, pensare intensamente ad un alimento può ridurne il suo consumo.
L'azione (immaginata) di mangiare un certo cibo indurrebbe infatti un fenomeno di abituazione sovrapponibile all'appagamento messo in atto dal cervello per evitare di mangiare troppe porzioni di qualcosa che ci piace.
Carey Morewedge, primo autore dello studio, nel commentare i risultati evidenzia come questa scoperta potrebbe essere utile per approntare metodiche che aiutino le persone a fare scelte di vita più salutari riducendo, ad esempio, il consumo di cibi non sani, droghe e sigarette.

Reference:
Morewedge CK, Huh YE, Joachim Vosgerau J
Thought for Food: Imagined Consumption Reduces Actual Consumption
Science 10 December 2010:Vol. 330 no. 6010 pp. 1530-1533

lunedì 6 dicembre 2010

Benefici dell'attività fisica

Prendendo spunto da una recente review pubblicata sul numero di dicembre dell'International Journal of Clinical Practice elenco di seguito i maggiori  benefici dell'attività fisica nell'uomo.

Una regolare attività fisica è associata ad un ridotto rischio di malattia coronarica e di ictus ischemico ed emorragico.
Aumentare l'attività fisica può ridurre il rischio di alcuni tipi di tumori, osteoporosi, diabete di tipo 2, depressione, obesità e ipertensione.
Vi sono prove degli effetti benefici dell'attività fisica nella prevenzione primaria e nella gestione del cancro e vi è una associazione tra alti livelli di attività fisica e riduzione dei tassi di morte per cancro.
Camminare o andare in bicicletta per almeno mezz 'ora al giorno è associato ad una riduzione di cancro e incrementando l'attività ad un ora l'incidenza del cancro scende del 16 per cento.
In particolare esiste una forte correlazione tra l'aumento dell'attività fisica e la riduzione del cancro al colon e alla prostata. Altri studi dimostrano che iniziare un attività fisica dopo la diagnosi di cancro può favorire la ripresa e migliorare i risultati delle terapie.
Gli uomini che sono fisicamente attivi hanno meno probabilità di avere problemi di erezione.
L'attività fisica può ridurre il rischio di demenza negli anziani.
Non fumare, una dieta salutistica e un indice di massa corporea minore di 25 sono gli altri fattori importanti per mantenersi in salute.


Reference:
Alford L. What men should know about the impact of physical activity on their health
International Journal of Clinical Practice Volume 64, Issue 13, pages 1731–1734, December 2010